Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, recante disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell'interno e l'organizzazione e il funzionamento dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Delega al Governo in materia di riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate
Grazie, Presidente. Onorevoli colleghi, rappresentanti del Governo, nell'affrontare la discussione del decreto-legge n. 113, il “decreto Salvini”, non ci si può sottrarre a rilevazioni - lo hanno fatto i miei colleghi prima - di metodo che si sommano ad una contrarietà di merito che muove da ragioni di natura etica e culturale prima ancora che politica, a partire dall'associazione impropria fra immigrazione e sicurezza in primis e denunciando la dinamica da voto di scambio che è avvenuta in questo Parlamento. Un do ut des indegno fra “legge anticorruzione” e “decreto sicurezza”, con una programmazione dei lavori conseguentemente assurda, fatta perché le cambiali potessero essere puntualmente pagate. Una scarpa sinistra al primo voto e la seconda al compimento dello scambio, come degli Achille Lauro 4.0, sostituendo il culto del comandante di allora a quello del capitano di oggi.
“Non teniamo trappoloni dopo il voto anticorruzione” ebbe a dire qualche giorno fa il sottosegretario Giorgetti, a evidenziare il mercimonio parlamentare avvenuto (e così sarà). Già sono state tacitate le poche e flebili voci di dissenso all'interno del MoVimento 5 Stelle che avevano chiesto di svolgere la propria funzione parlamentare migliorando, per quel che è possibile, il testo. “Mi aspetto lealtà”, ha tuonato qualche giorno fa il Ministro Di Maio, che tradotto dal nuovo dizionario italiano-lessico del cambiamento significa: “Mi aspetto che stiate zitti e votiate come dei sorteggiati qualunque”. E così sarà e già sono stati ritirati i venti emendamenti che erano in linea con molte delle nostre proposte emendative perché gli uni e le altre ancorati a quei principi costituzionali, ai valori fondativi della Repubblica che, invece, questo testo, reso intoccabile, viola in modo spudorato. Credere, obbedire e combattere si direbbe, dopo aver sdoganato il “me ne frego” nei fatti e nelle parole in quest'Aula.
E la dinamica del voto di scambio ha condizionato, dicevo, una programmazione che ha contratto i tempi di discussione anche in I Commissione, tant'è che l'onorevole Brescia, presidente e relatore del provvedimento, ha detto in quella sede - cito testualmente - che “non si lavora in modo adeguato in questa seconda lettura”. Una inadeguatezza formale voluta e ricercata per svilire il ruolo dei deputati, a cui è stata sottratta ogni possibilità di rendersi protagonisti di uno dei provvedimenti che, stante la retorica che spesso assume le sembianze della propaganda ascoltata fin qui, dovrebbe caratterizzare l'azione di questo Governo e di questa maggioranza. Un provvedimento centrale affrontato sbrigativamente, con audizioni convocate all'ultimo minuto che hanno visto la totale assenza della maggioranza: nessun parlamentare di maggioranza era presente ad ascoltare l'Associazione dei comuni italiani, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, l'Autorità garante dell'infanzia e il Tavolo Asilo, solo per citarne alcuni.
E, poi, l'assurdità di una discussione sugli emendamenti avvenuta, alla quale noi ci siamo a un certo punto dignitosamente sottratti, mentre sulle pagine Facebook dei due Vicepremier, ormai assunte come succedanee della Gazzetta Ufficiale, si annunciava la scelta di apporre la fiducia sul provvedimento.
E una questione di metodo ha riguardato anche il rapporto con gli altri livelli istituzionali di governo, soprattutto con i sindaci e con i comuni che in questi anni sono stati in prima fila a fianco dell'amministrazione centrale per gestire il fenomeno migratorio così come si è caratterizzato in questi ultimi anni. È mancato ogni riconoscimento del ruolo primario giocato dagli enti locali in materia, non sono stati ascoltati gli enti locali, non sono state ascoltate le proposte migliorative dei comuni che pure per primi pagheranno le conseguenze scellerate che la trasformazione in legge di questo decreto comporterà.
La collaborazione istituzionale fra Ministero dell'interno, comuni e regioni ha consentito, in questi anni difficili, di definire dispositivi di governance che hanno dato ai sindaci la facoltà di orientare e controllare i numeri e le modalità d'accoglienza, attivando una preziosa quanto inedita sinergia con le prefetture. Pensiamo all'intesa in Conferenza unificata del luglio 2014, alla clausola di salvaguardia dell'ottobre 2016 e al consolidamento e ampliamento della rete SPRAR, mentre nel merito - rilievi di merito - si sono mortificate e fatte venire meno le due architravi che hanno permesso ai territori di reggere alla pressione degli ultimi anni, ossia il principio dell'accoglienza diffusa e i servizi per l'integrazione.
I provvedimenti contenuti nel decreto rischiano, infatti, di privilegiare il sistema privato, quello delle grosse concentrazioni anche in piccoli comuni, quello dei centri straordinari sui territori gestiti in molti casi da operatori economici che nulla hanno a che fare con l'erogazione dei servizi alla persona. Il sistema, in una parola, che più problemi ha creato ai sindaci e alle comunità, che non avranno strumenti per poter incidere sulla pianificazione territoriale dell'accoglienza, il sistema che più ha mostrato falle e spazi di penetrazione dei soggetti spregiudicati quando non addirittura la penetrazione di forme criminali. Nei grandi centri è arrivata la mafia e l'illegalità e non nell'accoglienza diffusa che caratterizza lo SPRAR. È lì il business dell'immigrazione, come lo chiamate voi, e non nelle situazioni di accoglienza diffusa come appunto avviene nello SPRAR, che voi di fatto abolite.
Se non credete a me credete ad un esperto in materia che ha detto, con esemplare efficacia, su Il Corriere della Sera meno di una settimana fa, che - cito testualmente - “escludere la possibilità di accesso alla rete SPRAR dei richiedenti asilo farà crescere a dismisura il problema degli irregolari che restano sul territorio, portando molti problemi nei nostri comuni”. Ascolti queste parole sagge, signor relatore onorevole Brescia. So che non farà fatica, perché le ha pronunciate lei queste parole. Lo SPRAR è, infatti, oggi un sistema virtuoso che coinvolge oltre 1.800 comuni di ogni colore politico. L'altro giorno in audizione a perorarne la causa c'era l'assessore di Roma, l'assessore della sindaca Raggi per dire.
È un sistema che ha visto una crescita costante di adesione anche in questo 2018. Ricordo che si tratta di un'adesione che avviene su base volontarie. E perché i sindaci aderiscono allo SPRAR? Per buonismo, per ideologia, perché gli piace fare i perfetti? No! Lo hanno fatto perché hanno vissuto le fatiche inenarrabili con il sistema dell'emergenza, dell'ultimo minuto, della presa d'atto di scelte e imposizioni prefettizie, dell'impossibilità di condividere o quantomeno rendere consapevoli i cittadini delle proprie comunità delle scelte.
Hanno preferito, invece, la programmazione e la diffusione dell'accoglienza, in luogo di concentrazioni spesso prive di senso nel rapporto con i numeri della popolazione; hanno preferito un po' a tutti, in applicazione di logiche di solidarietà territoriale, invece che tutti ad uno; hanno preferito piccole accoglienze in appartamento, invece che grandi strutture dentro le città; hanno preferito l'integrazione possibile, invece che la logica del vitto e alloggio; hanno preferito, proprio per il dibattito pubblico sull'utilizzo di soldi pubblici nell'accoglienza, una rendicontazione rigorosa e di dettaglio come lo SPRAR prevede, invece che un sistema a maglie più larghe dei centri straordinari; hanno preferito le pratiche di innovazione sociale, le tante pratiche d'innovazione sociale, di welfare generativo che comuni e gestori dei servizi hanno realizzato in modo inedito in questi anni. Penso, ad esempio, nella mia città al “Progetto Vesta”, di accoglienza intra familiare dei migranti neomaggiorenni realizzato dentro al sistema SPRAR, che è stato un acceleratore straordinario di processi di integrazione lavorativa e sociale di quelle persone. Si tratta, dunque, di progetti di innovazione sociale che oggi sono patrimonio prezioso anche per altri soggetti fragili e altre situazioni all'interno del sistema di welfare.
Su tutto questo, su questa preferenza dei sindaci per gestire meglio il fenomeno, viene sostanzialmente tirata una riga sopra senza, cosa ancor più grave, una vera e propria alternativa. Si coglie, invece, la scelta, insita nel provvedimento, di complessiva precarizzazione della posizione dei migranti sul territorio. Non è la prima volta che, in Italia, il legislatore si muove in questa direzione. Dobbiamo tornare al 2001; la Lega, allora, si chiamava Lega Nord e aveva 49 milioni in meno e aveva posto nella propria campagna elettorale proprio la centralità del contrasto all'immigrazione straniera. Il testo della Bossi-Fini intervenne in diversi punti, con l'obiettivo di rendere la presenza straniera più precaria e meno protetta da tutele sociali e giuridiche, riducendo le opportunità legali di ingresso, premessa all'enorme crescita degli ingressi irregolari visti in questi anni (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico ).
Voglio che i migranti perbene arrivino in aereo e in ambasciata, non sui barconi, diceva qualche giorno fa Salvini. Ecco, bene, cancelli la Bossi-Fini, recuperi la possibilità di flussi regolari e avrà cominciato con il passo giusto; invece, fa un decreto che è in assoluta continuità con quella legge sbagliata nelle premesse e negli esiti.
Ricordo che la Bossi Fini fu accompagnata da una sanatoria che assunse le dimensioni della più grande regolarizzazione di massa nella storia dell'immigrazione in Italia; 701 mila irregolari, regolarizzati con una sanatoria. Non ci sarebbe da stupirsi, quindi, se, magari, dopo le elezioni europee, l'enfasi di frasi prive di senso come: “rimpatrieremo 600 mila clandestini”, pronunciate dal Ministro Salvini in trance agonistica da campagna elettorale, si trasformassero in una ennesima scelta di sanatoria. D'altronde ai condoni e alle sanatorie questo Governo ci sta abituando con inaspettata frequenta.
È un percorso, quello della normativa sull'immigrazione, che ha generato una notevole oscillazione di lavoratori e lavoratrici dentro e fuori la regolarità. Si ripropone la stessa favola: fermeremo tutti; non capendo che finché vi sarà malnutrizione, violazione di dignità e diritti umani, condizioni ambientali e climatiche incompatibili con la presenza umana, guerre, fondamentalismi etnici e religiosi che minacciano tutti coloro che non ne fanno parte, se continuerà lo sfruttamento intensivo delle risorse dell'Africa, le migrazioni non si fermeranno e seguiranno l'istinto di ogni essere umano a cercare una vita dignitosa per sé e la propria famiglia.
Invece di trovare soluzioni strutturali, invece di convincere l'Europa a dare attuazione alla revisione del Trattato di Dublino, come votato dal Parlamento europeo, si propone la stessa strategia di sempre. In primo luogo, cancellando la protezione umanitaria, si dà luogo ad un rischio di aumento esponenziale delle persone in condizioni di irregolarità, che sono obbligatoriamente destinate a ingrossare le fila del lavoro nero, delle irregolarità, delle occupazioni abusive e, quindi, del degrado. Le stime dell'ISPI parlano di un aumento di 120 mila unità nei prossimi due anni, che porterebbero il numero complessivo a oltre 600 mila persone irregolari entro il 2020, oltre ad alimentare un contenzioso giudiziale indicibile.
Non può sfuggire a nessuno quanto questo dato desti preoccupazione agli amministratori locali, in particolare, senza distinzione politica di sorta. Prevediamo casi di persone che magari hanno già ottenuto contratti di lavoro, per esempio neomaggiorenni, che dopo le accoglienze familiari siano stati assunti con contratti di apprendistato per due, tre o quattro anni, se malauguratamente si trovano nella fase del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ma non lo avessero ancora ritirato alla data del 4 ottobre, si troveranno in mano un inutile permesso di protezione speciale che non potrà essere convertito in permesso per motivi di lavoro. È giusto? A chi giova tutto ciò? Non sarebbe forse il caso, invece, di prevedere una definizione di posizione giuridica regolare di coloro che, pur non avendo un titolo di riconoscimento dello status di rifugiato, hanno effettuato un percorso di reale integrazione?
Li rimpatrieremo, dite, c'è anche un fondo per farlo, dite. Ebbene, andiamo a vedere - lo ha già fatto il collega Fiano - nel concreto, fuori dalla propaganda, di cosa parliamo: 500 mila euro nel 2018, un milione e mezzo per il 2019 e il 2020; prendiamo un valore a regime di un milione e mezzo, ogni rimpatrio costa 8 o 9 mila euro come minimo, se anche la matematica non è cambiata, da pitagorica a matematica del cambiamento, vuol dire poco più di 200 rimpatri all'anno. Ossia, per rimpatriare i famosi 600 mila irregolari, impiegherete 2803 anni, più o meno come le rate per restituire i quarantanove milioni di euro.
Nessun nuovo accordo, nel frattempo, è avvenuto per i rimpatri in questi mesi, anzi, sono stati messi a rischio gli accordi esistenti, fra cui, uno dei più efficaci, quello con la Tunisia.
E poi vi è l'aumento, l'estensione dei tempi di permanenza nei centri per il rimpatrio, da 90 a 180 giorni e le previsioni di trattenimento in frontiera, in non meglio specificati luoghi idonei; un totale di 220 giorni di permanenza in condizioni semi detentive in luoghi che, già in passato, mostravano l'inevitabile degrado verso forme che nulla hanno a che vedere con la dignità delle persone, con il paradosso di un richiedente asilo che rischia di essere trattenuto per un tempo superiore a quello di un espellendo, cioè rispetto a chi ha già avuto un decreto espulsivo.
E quei luoghi idonei cosa sono? Chi ne definisce gli standard minimi di dignità, chi li valuterà come tali? Non è dato saperlo e questo aggiunge inquietudine ad inquietudine, perché sappiamo come sono andate le cose, sappiamo cosa sono stati i CIE, sappiamo cosa sono stati i CARA e cosa sono, ancora, spesso, e non ci possiamo arrendere all'idea che quello sia il massimo che un grande Paese civile, fondatore dell'Unione europea, possa offrire, con il rischio di una rabbia sociale e di un allontanamento da ogni possibile processo di reale integrazione.
In secondo luogo, con il provvedimento, lo Stato si ritira dalla presa in carico dei richiedenti asilo in condizioni di vulnerabilità, mantenendo solo servizi di tipo esclusivamente alberghiero, proprio quelli massimamente vituperati. Non si può parlare nemmeno di servizi a bassa soglia; l'assistenza vera ricadrà dunque interamente sui servizi socio sanitari dei territori. Si tratta di persone portatrici di fragilità anche gravi, la cui esistenza non può essere cancellata per decreto, che è impensabile che vengano gestite nei CAS o in questi centri alla frontiera.
Parlo di persone che presentano disagio mentale, che se non curate adeguatamente e contenute in contesti adeguati potranno rappresentare certamente motivo di allarme per le comunità, parliamo di donne violate, magari con bambini piccoli, che dovranno essere prese in carico dai comuni, perché prevarrà la tutela dovuta ai minori, che oggi hanno trovato nello SPRAR, nell'accoglienza diffusa, una risposta adeguata e domani non si sa. Parliamo più in generale dei nuclei familiari di richiedenti protezione con minori, ai quali come sarà possibile assicurare il godimento di diritti analoghi a quelli di tutti gli altri bambini se si troveranno ad attendere l'esame della domanda di protezione presso centri collettivi che sempre più assomiglieranno al CARA di Mineo, a quello di Crotone, a quello di Borgo Mezzanone, a quello di Cona?
I servizi di accoglienza destinati a tali situazioni di vulnerabilità sono assicurati anche in collaborazione con le ASL competenti del territorio, oggi, nonché con gli altri servizi locali, sociali, scolastici ed educativi, in capo, appunto, ai comuni. Si tratta dei medesimi servizi responsabili degli interventi destinati alla presa in carico e alla protezione dei neomaggiorenni.
I comuni chiedono di mantenere presso lo SPRAR l'accoglienza di questa tipologia di persone, al fine di ottimizzare i costi della spesa pubblica nazionale e locale, di ottimizzare al massimo la gestione della complessità dei servizi locali che, comunque, devono essere erogati a livello territoriale, socio sanitari, scolastici, educativi, di facilitare i percorsi di inserimento socio economico e di effettiva inclusione nel tessuto sociale, al fine di prevenire il rischio di marginalità sociale, di scivolamento progressivo nelle sacche di emarginazione e di devianza, con possibili ricadute sulla sicurezza dei territori, di prevenire i rischi sanitari correlati alla salute pubblica, qualcosa è stato fatto, ma non abbastanza, e di prevenire qualsiasi rischio di ricaduta sui locali servizi sociali e di polizia in caso di mancata tempestività degli interventi.
Ad oggi, infatti, l'ente locale aderente alla rete SPRAR si vede rimborsati tali servizi per i richiedenti e titolari di protezione accolti nel progetto territoriale. Impedire l'accesso ai richiedenti asilo vulnerabili all'interno di progetti SPRAR, significa inevitabilmente far ricadere sui bilanci dei comuni i costi dei servizi socio sanitari che sarà in ogni caso necessario erogare, senza poter accedere ad alcun rimborso da parte dello Stato. Lo dico in modo che lo possiate capire meglio: soldi dei comuni, dei contribuenti per gestire vulnerabilità dei migranti che oggi sono nel sistema nazionale, con buona pace di “prima gli italiani”. Ci si chiede, anche, quale sarà il destino di chi sarà titolare del permesso di soggiorno per protezione sociale, per cui non sembra esservi nessuna previsione di misure di accoglienza e che dobbiamo, quindi, immaginare ancora sulle spalle dei servizi dei comuni.
Esprimo, infine, preoccupazione per i neomaggiorenni che, entrati come minori, potranno trovarsi con un permesso per minore età in scadenza e con la difficoltà nella conversione se non adeguatamente sostenuti o con un permesso di protezione speciale, nella migliore delle ipotesi, comunque privi di misure di accoglienza, se non ricorrendo a quanto prevede la legge Zampa, una legge che abbiamo fatto noi, attraverso il cosiddetto prosieguo amministrativo che estende ai ventun anni la protezione dovuta in quanto minore. Chi si farà carico di assicurare loro la protezione? Sarà possibile anche per loro l'accesso allo SPRAR o dovranno essere i comuni, data la loro competenza sulla materia?
Insomma, signor Presidente, ci troviamo di fronte ad un provvedimento crudele, ma ancor prima inutile ed inefficace finanche per gli stessi obiettivi, da me non condivisi, che il Ministro Salvini si pone; salvo che il Ministro Salvini, che vedo in Aula, non abbia in realtà come vero obiettivo il caos, come efficace benzina per la macchina della propaganda delle elezioni europee. Ora che non c'è più lo spauracchio dei barconi che arrivano dal mare, produciamo migliaia di irregolari a tener vivo quel caos e la paura conseguente. L'onorevole Brescia, nella sua intervista che ho citato prima, tristemente ammette che in ultima analisi è la Lega ad avere l'ultima parola su questi temi. A dire il vero, ci pare che la Lega abbia l'ultima parola quasi su tutto. Ebbene, lo dico agli altri deputati, questo non è vero: l'ultima parola l'avete voi, deputate e deputati eletti in rappresentanza della nazione, nell'esercizio del vostro libero giudizio su questo provvedimento e sulle conseguenze che produrrà.
Mi appello a voi: abbiate il coraggio della libertà che la Costituzione vi concede per svolgere al meglio l'alto incarico a cui siamo e siete chiamati. Darete così anche una qualche parvenza di credibilità, e chiudo, Presidente, a quel richiamo sulla centralità del Parlamento che il Presidente Fico fece nel suo insediamento e che ogni giorno, e certamente oggi di più, appare retorica fine a se stessa, il contrario esatto del cambiamento.